"Un luogo di fede, speranza e comunità a Capodacqua"

La storia

S Giovanni Battista a Capodacqua - oggi S. Biagio

La chiesetta sorge in pianura, presso quella che era detta la Taverna dei Medici, sul sito della scomparsa villa di Capodacqua. Storicamente intitolata a S. Giovanni, la sua prima attestazione documentale risale al 1183, citata nella bolla di papa Lucio III al vescovo di Valva Odorisio. Nel 1708 risultava avere già intitolazione duplice, con S. Biagio che precedeva nel titolo, ed era chiesa "annessa, e connessa a quella di S. Martino in Fornello, nomata prepositura sine cura, e n'è il Rettore il medesimo Sig. Abate Bonelli"2. Poi circa il 1754 s'intitola al solo S. Biagio.
Capodacqua peraltro, come abbiam visto, è toponimo documentato ben prima di detto 1183, risultando già nel sec. VII, dal Chronicon Vulturnense, tra le curtes della valle Tritana assoggettate al monastero di S. Pietro ad Oratorium da re Desiderio - il documento che l'attesta può essere stato falsificato nella forma, ma secondo il Muratori e l'Antinori ha fondamento storico; comunque fu confermato dai re e imperatori successivi.
E se tra il 756 e il 774 desideriani Capodacqua era una curtis, o fattoria autonoma di assetto insediativo diffuso, essa era certamente servita fin d'allora da un oratorio è la ragione per la quale iniziamo l'esame delle chiese capestranesi con questa – senza poter ovviamente affermare che s'intitolasse già a S. Giovanni.

E non è tutto: esiste la possibilità che il Capodacqua alto-medioevale a sua volta fosse preceduto, su identico sito, da un abitato, e pertanto, si suppone, anche da una chiesa, intitolata o meno che fosse a S. Giovanni Battista, più antichi ancora dell'VIII secolo. Intriga infatti, nella detta bolla papale del 1183 che le assegna al vescovo valvense, la menzione di due chiese di San Massimo simultaneamente: una in Trite ed una in Ofena, mentre nella bolla innocenziana del 1210 si cita un San Massimo de Capite aque attribuito in possesso al monastero di S. Pietro ad Oratorium. Del San Massimo de Capite aque in parola e del San Massimo in Trite non v'è ulteriore notizia documentale, né si indica o se ne conosce la localizzazione. Del San Massimo di Ofena invece, seppur in avanzata rovina, esiste tuttora la chiesetta proprio nei paraggi di Capodacqua, vicino al borgo disabitato di S.Silvestro.

Essa accusa una datazione ricostruttiva almeno al XIl secolo nel suo contenitore murario rettangolare sotto tetto a spioventi conchiuso in abside semicircolare, nelle muraglie inferiori, nei cantonali e nelle feritoie in conci squadrati, nonché nell'abside interna, il cui antico
arco trionfale in pietra s'intravvede sotto gli stucchi attorno all'attuale altare barocco che la riempie l'interno ora ha una volta a scifo lunettata, pure di rifacimento barocco, e la facciatina, con portale purtroppo trafugato, è sfigurata.

Ci si chiede se i due scomparsi San Massimo - quello di Capite aquee quello di Trite -rappresentino un doppione addebitabile all'estensore delle bolle papali. Per la verità, abitualmente i documenti pontifici ripetono tal quale il contenuto di una petitio, e i due documenti papali che citano le dette chiese erano finalizzati, si noti, a riattribuire esattamente al vescovado di Valva od al monastero di S. Pietro ad Oratorium terre e chiesea volte in reciproca contestazione. Checché sia stato in realtà, se una o due chiese di S. Massimo curiosamente esistenti a così breve distanza l'una dall'altra, quello che interessa alla nostra argomentazione è la loro intitolazione al martire dei Vestini per eccellenza: S. Massimo di Aveia, titolo che deve presumibilmente rimontare ad epoca precedente la più volte menzionata annessione, nel sec. VII, della circoscrizione aufinate alla diocesi di Valva. Avendo presente che le due altre cattedrali vestine di Forcona e di Penne s'intitolano allo stesso santo aveiate', ci si chiede anche se, in origine, uno di questi San Massimo tritani non debba essere pensato come l'originario titolare altresi della chiesa vescovile vestina di Aufinum e, di conseguenza, se il nucleo insediativo di Capodacqua, per esser sito sulla riscoperta area archeologica italica del Guerriero ed al margine Sud di quella che, come più sopra illustrato, sarebbe stata l'area dell'urbe romana di Aufinum, prima di diventare curtem longobarda non sia stato un residuo insediativo, appena fuori Porta, dell'antica distrutta città. 

Ad una continuità insediativa post-romana, per quanto labile, di centri urbani dissolti dalle invasioni barbariche e dalla guerra bizantino-gotica, nonché dall'invasione S569-574 dei Longobardi, indirizzano per l'appunto i risultati delle ricerche degli scavi di archeologia medioevale effettuati in questi ultimi decenni in loco. Ciò naturalmente a prescindere dall'abitato di età neolitica, risultato nel 2008 esistente a Capodacqua dai dati del GIS e continuato fino all'età del ferro.

In questa linea, originariamente vi sarebbe stato un San Massimo basilica cemeteriale, se non anche 'cattedrale', di Aufinum, e in successione, annessa nel sec. VII la diocesi aufinate a quella di Valva, il santo titolare vestino sarebbe passato in second'ordine, I'Aufinum/Ofena post-longobarda avrebbe adottato il noto San Valentino come propria chiesa battesimale o plebana, l'ex cattedrale - il San Massimo in Trite o quello de Capite aque - ormai declassata a succursale sarebbe diventata il San Giovanni Battista di Capodacqua in esame, ed a S. Massimo, per conservarne memoria, sarebbe stata dedicata una nuova chiesa – la chiesetta di cui sopra, poi nell'XI-XI1 secolo ricostruita nelle forme che si vedono.
Le testimonianze documentali e monumentali attualmente a nostra disposizione non permettono di dipanare questa matassa e, a complicare le cose, nel tempo la soggezione ecclesiastica del San Giovanni di Capodacqua ha avuto variazioni, passando da giurisdizione vescovile a giurisdizione monasteriale, e viceversa. La menzionata bolla papale del 1183 stabilisce la sua appartenenza alla diocesi valvense. Poi dev'esser passato a S. Pietro ad Oratorium, restandovi stabilmente nei secoli successivi: di certo nel 1323, quando è menzionato nelle decime papali, ed ancora nel 1499, quando la chiesa aveva per preposto un certo Nicola, vicario di Francesco Piccolomini commendatario perpetuo, appunto, della prepositura di S.Pietro ad Oratorium. E continuò ad appartenere a S. Pietro almeno fino al 1564, quando mori - ma in S. Martino, cui S.Giovanni era stato nel frattempo unito (1547) il successore di detto Francesco, ossia Pompeo di Aragona, figlio di Alfonso Duca di Amalfi e Marchese di Capestrano. Dopo di che, ridotto a semplice beneficio da prepositura che era stata al pari dello stesso San Pietro, nel 1605 papa Clemente VIII dichiarò San Giovanni di patronato dei signori di Capestrano Ormai di proprietà privata, consiste in un vano rettangolare coperto da soffitto piatto a imposte stondate e con due lievi aggetti plastici di lesene che ritmano l'aula in tre campate.

Lo spazio è avvivato, sulla sola parete di fondo, da un'epidermide in stucco disegnante sul muro un incorniciatura arcuata e volute ai lati, tra specchiature ad ornati, sulla quale in precedenza era esposta alla venerazione una tela raffigurante il martirio di San Giovanni Battista, mentre oggi, sparita quella, la sostituisce una copia della stessa e una moderna statua del Santo sopra la mensa barocca, ad antipendio Svasato e bombato, dell'altar maggiore. Gli esterni dicono poco architettonicamente, trattandosi di semplici muri d'involucro parallelepipedo coperto a capanna. Solo la facciatella quadrangolare, ad intonaco, si definisce in alto con pronunciato cornicione orizzontale a modanature di ovuli e baccelli, e aprentesi, al centro, in un portale a vano rettangolare di lisci stipiti ed architrave, fregio e cornice, sormontato da un ovale a pure liscia mostra, in stucco. Non siamo evidentemente davanti alla San Giovanni originaria, neppure alla citata San
Giovanni in Trite del 1183,e neppure a quella o quelle che la seguirono nei sec. XII-XVII, delle cui conformazioni architettoniche e dimensionali non sappiamo nulla. L'attuale è una fabbrica rifatta di pianta, attribuendone l'intitolazione al solo San Biagio nel 1754, quando, annota l'Antinori, D. Carlo Giamorretti la 'restaurò utilizzando i frutti pregressi del beneficio vacante da tempo, e dotandola di una Via Crucis. Ma atteso che al tempo della visita del vescovo sulmontino De Ciocchis, in quello stesso periodo, la navata risulta coperta da una "volta decorata da valente pennello", mentre nel 1939 del Masci aveva "una soffitta di legno", più il "'solo altare con un quadro, di nessun valore, di S. Biagio", deve conchiudersi che anche la chiesa settecentesca era stata parzialmente modificata tra 1754 e 1939.

Se cosi è, ci si chiederà se negli ultimi interventi restaurativi, coi quali si suppone si sia applicato il soffitto piatto a quello precedente a incavallature lignee, non sarebbe stato criticamente preferibile lasciare l'aula coperta a capriate: di un carattere, pertanto, più consentaneo ad un luogo sacro antico. Invece l'attuale soffittatura converte l'aula in poco più di un salone, certamente più polito e termicamente gradevole, ma privo di vero carattere architettonico a causa della spazialità che in tale assetto risulta più statica di quanto già il vano in sé, privo di articolazioni sia spaziali che plastiche, in precedenza è immaginabile si caratterizzava.


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